L’avvocato Carlo Tremolada, socio fondatore di Affìrm penalisti associati è intervenuto con un proprio commento sul tema, purtroppo caldissimo, dei femminicidi, pubblicato dalla testata online Sussidiario.net.
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Femminicidio e nuovi reati
Pene esemplari, non è qui il rimedio al male che ci assedia
Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin sono state inasprite le pene sulla violenza di genere. Ma la continua estensione del diritto penale non è la strada giusta.
di Carlo Tremolada
Di fronte all’ultimo tragico episodio di “femminicidio” costato la vita alla giovane Giulia Cecchettin, il Parlamento, con una celerità inusitata e con il consenso pressoché unanime dei suoi membri, ha approvato il disegno di legge n. 923/2023 per il “contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica”. Si tratta dell’ennesima (reale o presunta) emergenza per la sicurezza, che per l’ennesima volta viene fronteggiata attraverso l’inasprimento dell’intervento punitivo dello Stato: aggravio delle pene per talune fattispecie di reato collegate al fenomeno della violenza di genere e introduzione di meccanismi processuali orientati a velocizzare l’adozione delle misure cautelari e la trattazione dei processi in materia. Da notare che il nuovo articolato legislativo andrebbe a integrare le già severe norme, le già durissime sanzioni e i già penetranti strumenti processuali dettati pochi anni or sono dal cosiddetto “codice rosso”, dovendosi prendere atto a questo punto che il precedente rigidissimo intervento repressivo non ha funzionato.
Eppure, ancora una volta l’unica soluzione che la politica trova ragionevole proporre è quella di innalzare l’asticella dell’inasprimento sanzionatorio. Non si tratta – sia ben chiaro – di “colore” del Governo di turno. Si ricorderà che nel 2016 il Governo Renzi, di fronte alla (vera o presunta) emergenza legata ai decessi per incidenti stradali, introdusse la fattispecie colposa di “omicidio stradale” (art. 589 bis c.p.) con previsione di pene detentive per l’ipotesi aggravata assai prossime a quelle dell’omicidio volontario. Anche sotto la vigenza dei precedenti Esecutivi, al verificarsi di un infortunio sul lavoro, si è discusso dell’opportunità di forgiare una nuova ed autonoma fattispecie di reato al fine di inasprire le pene già previste per le morti sul lavoro. Di recente è stata persino introdotta la singolare fattispecie di “lesioni” ed “omicidio nautico”, a fronte di un tragico (ma isolato) evento cagionato dalla collisione di due natanti sul lago di Garda.
Nel suo acutissimo saggio intitolato Diritto penale totale, il prof. Filippo Sgubbi – insigne giurista e stimatissimo cultore del cosiddetto diritto penale minimo – così definiva la nostra epoca: “È, la nostra, l’epoca del diritto penale totale, totale perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo … totale soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e ad ogni male sociale”. Si invoca ad ogni piè sospinto l’intervento repressivo dello Stato come rimedio “salvifico”, come magico strumento per porre fine al dilagare del male; del resto – non è difficile comprenderlo – un simile approccio è assai remunerativo sul piano politico e mediatico per chi lo propone. Paga molto di più, e molto più rapidamente, annunciare di avere aumentato le pene del tale o del talaltro reato, piuttosto che puntare seriamente, sfidando la vulgata giustizialista, su quei percorsi di riabilitazione del condannato o dell’indagato che la funzione rieducativa della pena esigerebbe.
Siamo certi che il ritorno a una visione “carcero-centrica”, in evidente controtendenza rispetto all’impianto ideale che ha ispirato in materia penale la Riforma Cartabia, rappresenti un grave errore e che la promessa di “salvezza” che essa dispensa sia una tragica illusione, destinata ancora una volta ad infrangersi contro dati della realtà che le cronache future non mancheranno di indicarci.
Alcuni “nota bene”:
- in un clima sempre più fosco, ove gli stessi magistrati faticano a fronteggiare le spinte colpevoliste fomentate dal circolo vizioso media-politiche repressive, che ne sarà del rispetto della dignità di chi è accusato di un delitto e delle garanzie difensive che lo Stato di diritto pure richiede di riconoscere (tanto più nel contesto di indagini e processi che riguardano ipotesi di violenza di genere, ove, anche per il comprensibile sconcerto che esse generano, più elevato è il rischio di una giustizia sommaria)?
- la promessa salvifica che il “diritto penale totale” insinua nella mentalità collettiva è fuorviante, perché impedisce di comprendere il cuore del problema e l’inizio di un percorso di “rieducazione” dell’accusato, che – piaccia o meno – è il solo ed unico efficace strumento di prevenzione e riduzione del numero dei delitti di violenza di genere. Quando si tratta di “violenza di genere” di cosa si parla se non di un rapporto affettivo nel quale l’amore si trasforma in possesso e in ossessivo controllo dell’altro per la paura di perderlo? Ed allora il problema è imparare ad amare l’altro senza volerlo possedere, considerare l’altro come “altro” e non come riflesso narcisistico di sé. In fondo di rieducazione della pena parla l’art. 27 della Costituzione, ma, se si vuole, già Cesare Beccaria affermava che “il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”.
- Occorre cominciare a comprendere che la risposta al male e alla violenza non può essere delegata alla sola magistratura, ma necessita di un impegno corale, che veda la partecipazione del singolo a quelle realtà e a quelle formazioni sociali – come richiama l’art. 2 della Costituzione – che possano educare ad un’esistenza positiva e a un’inclusività pacifica dell’altro. Vicino a noi esistono esempi illuminanti di ricostruzione umana di esistenze già segnate dall’odio e dalla violenza. Pensiamo ad una realtà come Portofranco, premiata di recente dal presidente Mattarella per l’opera di aiuto allo studio e di recupero che svolge nei confronti di giovani disagiati, vissuti in contesti degradati, spesso già avviati verso destini di violenza e di illegalità, e che vengono aiutati nello studio e stimolati così a proseguire il proprio percorso scolastico; pensiamo a realtà come l’Associazione Kairos di don Claudio Burgio che cerca di recuperare minorenni che transitano per il Carcere minorile Beccaria dopo avere commesso reati gravi; pensiamo alla valenza educativa di gesti pubblici come la Colletta del Banco Alimentare che il giorno 18 novembre ha visto la partecipazione in tutta Italia di 140mila volontari che hanno raccolto migliaia di tonnellate di cibo da distribuire a migliaia di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà.
La risposta al male e alla violenza esiste, ed esistono strumenti di prevenzione del delitto che passano necessariamente attraverso il cambiamento della persona. Occorre guardare ad essi, senza lasciarsi ingannare da facili ma false promesse di salvezza.